Intervista a Guido Harari
In occasione della pubblicazione del libro fotografico "Fabrizio De Andrè - Sguardi randagi", 2019
(Immagine per gentile concessione dell'artista. La mia intervista è pubblicata anche sul Magazine Artribune)
INTERVISTA AL FOTOGRAFO GUIDO HARARI, I CUI SCATTI SONO RACCOLTI NEL VOLUME “FABRIZIO DE ANDRÉ. SGUARDI RANDAGI”. UNA CHIACCHIERATA SU FABER E SUL SUO RAPPORTO CON IL LINGUAGGIO FOTOGRAFICO.
Come sei diventato fotografo? La passione per la fotografia si è sviluppata di pari passo con quella per la musica, fin da bambino. Mi ha ispirato dapprima l’iconografia delle copertine dei dischi, poi il lavoro di fotografi come Jim Marshall, Annie Leibovitz, David Gahr, Barry Feinstein, Jean-Pierre Leloir, le cui immagini assimilavo dai giornali musicali dell’epoca.
La fotografia ha cambiato il modo in cui guardi il mondo? Più facile che il mio modo di guardare il mondo abbia cambiato la mia fotografia. Ho elaborato una mia chiave di lettura e interpretazione, più emotiva ed empatica, meno attenta alla creazione di una cifra stilistica.
Tra i tuoi capolavori fotografici: BB King, Miuccia Prada, Giorgio Armani, Bob Dylan, Lou Reed con Laurie Anderson, Tom Waits. Sei riuscito a far emergere un’anima rock perfino dal premio Nobel Rita Levi Montalcini. Come riesci a creare la giusta sintonia con i tuoi soggetti? Per fotografare una persona, famosa o meno che sia, deve scattare una specie di innamoramento, di slancio verso l’altro, di curiosità. Mi auguro che questo arrivi e possa tradursi in un’immagine, visto che questo è il mio linguaggio. Non sempre è possibile, ovvio, ma riuscire a travolgere e coinvolgere l’altro nel gioco della fotografia (perché è un gioco!) è sempre un piccolo trionfo per me.
De André: una collaborazione ventennale; una mostra co-curata a Palazzo Ducale di Genova, tre libri realizzati con la partecipazione di personaggi come Fernanda Pivano, la PFM, Beppe Grillo e ora un quarto, Sguardi randagi, in cui dischiudi integralmente il tuo archivio. Se, come fotografo, rubare l’essenza” del soggetto rappresentato è l’elemento che ti rende unico, possiamo dire che, a sua volta, Fabrizio sia riuscito a “stregare” te? Ho sempre avuto nei confronti di Fabrizio un timore reverenziale, che ho risolto soltanto negli ultimi anni della nostra collaborazione. Quindi sì, potremmo dire che ne ero affascinato, quasi “stregato”, ma dalle foto traspare tutt’altro. Si era creata tra noi una complicità che rendeva possibile guardarlo senza filtri né mediazioni.
L’emblematica foto di De André sdraiato accanto al calorifero immortala un momento intimo, è uno scatto che racconta l’uomo dietro il mito.
Com’era il vero Faber? Fabrizio era una persona in ascolto, sempre curioso di scoprire chi aveva davanti. Aveva una capacità unica di parlare anche dei massimi sistemi con semplicità, con chiunque. Amava provocare e, solo se davi prova di sapergli tenere testa, potevi guadagnarti il suo rispetto. Fotografarlo non è stato un “lavoro”: si sceglieva di passare del buon tempo insieme e farsi fotografare ne era per lui un corollario. Le fotografie spesso nascevano per caso, man mano che scoprivo qualche tessera inedita del suo mosaico. Come, ad esempio, quella in cui si vede Dori tagliargli i capelli, o quella in cui ho colto Fabrizio nella sua dimensione notturna, sdraiato sul letto colmo di libri e appunti.
C’è qualcosa che desideri ancora realizzare in fotografia? Cosa consideri il tuo più grande successo? Amo lasciarmi stupire e non fare progetti. Da una quindicina di anni fotografo anche senza macchina fotografica, curando libri e mostre e occupandomi della mia piccola galleria fotografica, Wall Of Sound. Il mio più grande successo? Avere ancora oggi, dopo quasi cinquant’anni di attività, la possibilità di coltivare e condividere la mia passione per musica e fotografia.
Elena Arzani
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