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Intervista a Stefano De Luigi



(Foto: immagine utilizzata per gentile concessione dell'artista)


In occasione della personale "Televisiva", presso The Other size Gallery di Milano, ho intervistato il pluripremiato fotografo, Stefano De Luigi.

(Questa intervista è pubblicata anche sulla rivista Artribune)


Tra satira ed inquietudine, 32 scatti in bianco e nero delineano Televisiva, la mostra di Stefano De Luigi (Colonia, 1964), a cura di Giusi Affronti, esposta presso “The other size” Gallery a Milano, fino al 10 Aprile 2020. In questa intervista, De Luigi presenta il progetto. 


Di cosa tratta, Televisiva?

Televisiva focalizza l’attenzione su quell’epoca storica e su quei messaggi veicolati, quei modelli comportamentali che secondo me hanno permeato la società italiana contemporanea. La televisione nel corso della sua esistenza é stata anche molto positivamente efficace. Sempre in Italia, ha contribuito ad alfabetizzare una parte della popolazione. Purtroppo dopo averla alfabetizzata, negli anni 50/70 con dei programmi di livello culturale notevole e con una vera missione di utilità pubblica, l’ha anche plasmata negli anni 80/90 ad una visione del mondo nettamente meno democratica, sguaiata violenta irrisoria di principi di benevolenza, individualizzando l’agora politica e magnificando l’edonismo e l’apparenza come unica vera moneta corrente. Provocando insomma un deficit di cultura importante, deviando o svalutando ogni forma di pensiero costruito sul senso di responsabilità e solidarietà. Contribuendo in modo netto a costruire una società che rifiuta spesso il sacrificio e le responsabilità civili e politiche. Ha instillato secondo me, i germi del populismo, presenti nella società contemporanea, ha alzato di molto la soglia di tolleranza verso atteggiamenti e parole anti democratiche. Ha prodotto la cultura del “noi” contro “loro” insomma una diseducazione civica di massa.


Cosa desideri comunicare attraverso gli scatti di Televisiva?

Quello che é visibile nella mostra, rappresenta la punta dell’iceberg. Come può immaginare per un progetto durato sei anni e lasciato maturare per un quarto di secolo. Esiste una versione molto più estesa omogenea ed esaustiva di Televisiva, che però non ha incuriosito nessuno per il momento, e penso a fondazioni ed istituzioni pubbliche che ho provato a sollecitare. Quello a cui tengo, e che spero si evidenzi, grazie anche all’ottimo lavoro che la curatrice Giusi Affronti ha svolto su questa selezione concisa, è evidenziare la relazione profonda tra ciò che si vedeva in televisione negli anni 90, e la società contemporanea. Questa girandola di sentimenti virtuali, questo circo volgare, assordante, disperato che ha contaminato la società reale con dosi massicce di messaggi, di misoginia, di egotismo sfrenato di violenza latente, di cinico ed egoista disincanto. La mia é un’ipotesi certo, e come tutte le ipotesi é sottoposta a verifiche, ma ho il netto sentimento quando guardo quei “momenti televisivi” che qualcosa sia filtrato nel mondo reale. Che parte dei veleni di quella televisione, stupida, cattiva e sguaiata ma che veniva venduta come vera esigenza di un fantomatico pubblico ( popolo) che voleva questo, si sia sedimentato nel corpo sociale. La sintesi? Ci sono alcune foto che illustrano bene una collisione tra la società- spettacolo e quella reale, Rocco Casalino che si specchia nella casa del Grande Fratello, Wendy che fa la parodia scollacciata delle conferenze stampa a Montecitorio o anche Irene Pivetti già presidente della camera dei deputati (terza carica dello stato) distesa in amabile conversazione con Platinette, conduttrici spensierate di una trasmissione ad alto contenuto informativo come Bisturi. Dal reale al virtuale e ritorno.


Hai vinto 4 volte il World Press award ed altri importanti riconoscimenti per la fotografia giornalistica ed editoriale. Cosa ne pensi della fotografia artistica a confronto di quella documentaristica?

C’è posto per tutte le anime sotto il tetto delle discipline artistiche. Quello che chiedo a me stesso e alle fotografie che vedo, siano esse catalogate come artistiche o documentaristiche è di sorprendermi. Di sollecitarmi, sopratutto di non annoiarmi con la retorica né con il conformismo o un formalismo sterile o ancora peggio manierista.

Le buone foto hanno una dimensione che va oltre un contenuto bidimensionale, sono quelle che impongono una lettura a più livelli ed una complessità nell’interpretazione da renderle quasi degli oggetti misteriosi, tanto sono cariche di significati reconditi. Quindi la distinzione tra documentaristico ed artistico a questo punto, per me ha poca importanza. È utile ad un mercato dell’arte che ha bisogno di riferimenti precisi per stabilire anche dei criteri economic di vendita. Les rencontres d’Arles sono per questo un ottimo esempio di sintesi, perché propongono spesso uno sguardo trasversale sulla fotografia contemporanea, senza fermarsi alle catalogazioni cercando di far convivere generi e sguardi di orizzonti diversi.


Elena Arzani




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