Intervista ad Alessia Glaviano, senior photo editor di Vogue Italia
Parola alla senior photo editor di Vogue Italia, per una chiacchierata a tutto tondo sulla fotografia, la moda e l’editoria di settore. A partire dalla mostra di Larry Fink all’Armani/Silos di Milano, conclusasi lo scorso luglio.
Alessia Glaviano al Vogue Festival 2017. Photo Maria Pia Bernardoni
All’interno della mostra The Beats and The Vanities di Larry Fink all’Armani/Silos di Milano hai rintracciato la presenza di elementi di moda negli scatti del fotografo. Ti andrebbe di approfondire il discorso?
Io sono contraria alle divisioni nette nelle Arti in generale. Esistono delle singolarità, che per poter sopravvivere vengono allargate a delle generalità, per poi arrivare a categorie che ci permettono di parlarne, ma in realtà queste categorie esistono e non esistono, soprattutto quando si raggiunge un livello più alto, come nel caso di Larry Fink, ed è un qualcosa per cui io mi batto molto. Avedon, Penn, Guy Bourdin, quando hanno iniziato a fare immagini, le producevano per un’outline che era il giornale, quindi per un periodo di tempo magari pubblicizzavano un abito, ma il loro approccio non era quello della vendita di un vestito, bensì del creare un’immagine bella, che riflettesse la cultura del tempo, della società, tant’è che molti di quegli scatti oggi li ritroviamo nei musei, nelle aste d’arte e la moda è solo uno degli elementi.
In questo contesto, che ruolo e valore dai alla moda?
Quindi la moda, secondo me, è la nostra interfaccia con il mondo, una sorta di linguaggio e modo di interagire. Nel corso del tempo il suo significato è stato un po’ svilito, fino a diventare un’ansia consumistica, mentre il concetto di moda come qualcosa che si indossa e ti rappresenta come individuo è un concetto nobile.
Tornando al discorso delle categorie, ci sono molti fotografi di reportage in gamba, che nel momento in cui scattano immagini di moda pensano di dover stravolgere il loro stile, creando scatti orrendi, invece quelli di Fink parlano anche di moda. Se pensi al servizio di Bruce Davidson, sembra davvero un servizio di moda.
Qual è la linea di demarcazione?
È un discorso molto ampio e interessante. È vero che Vogue Italia, così come ogni altro giornale, è completamente inserito nel sistema capitalistico, ma al suo interno vi è anche la protesta. “A meno che quella protesta non debba sfociare in una rivoluzione” ‒ come diceva Marx ‒, “tutto vale”, nel senso che, pur restando nel sistema, possiamo produrre dei contenuti di un valore così grande da mettere in discussione l’origine da cui provengono, perché è la qualità a far la differenza.
Pertanto, all’interno di Vogue, ho iniziato a parlare di fotografia di moda insieme ad altri generi fotografici in modo più articolato, soprattutto nel momento in cui il giornale è andato online, perché sul cartaceo vi sono delle limitazioni di spazio. Sul web sono riuscita ad ampliare il discorso, introducendo tutti i generi fotografici, interviste ai maestri della fotografia, da quella documentaria alla moda. Vogue è una piattaforma aperta a ogni genere fotografico, mi piace questa idea del dialogo aperto a ogni tipo di immagine.
Penso che tu più di chiunque altro possa avere un occhio attento ai cambiamenti del costume e della società. A tuo avviso, un lavoro così spontaneo come quello di Fink sui Beats oggigiorno è ancora possibile?
In linea di massima c’è un’awareness, una consapevolezza da parte di chiunque, che va a minare la spontaneità, ma poi, quando meno te lo aspetti, assisti a un lavoro come quello che ha fatto Micke Brodie, Juvenile, per esempio, che è pazzesco, spontaneo, vero. Purtroppo noi tendiamo a pensare che la società e la cultura siano quelle occidentali, invece ci sono grandissime parti del mondo che vedono le cose diversamente da noi e sono a un livello diverso. Quindi sì, nella nostra società credo si sia arrivati a un delirio di consapevolezza dell’immagine totale, che pervade qualsiasi aspetto della vita quotidiana, basti pensare a tutte le app sui telefonini, create per assecondare l’idea che non si possa invecchiare. Grazie a tantissime fotografe giovani, che hanno iniziato a fare una battaglia contro tutto questo, mostrandosi per come sono, anche i media hanno cominciato a mostrare diversi tipi di donna.
Per esempio?
Talvolta accade un evento in una direzione e successivamente un secondo di grande portata in quella opposta, che ti sposta e riallinea. Da Petra Collins ad Amanda De Cadenet, che ha un Instagram molto interessante, Girl gaze project, fino alla mostra The female gaze, che ho realizzato lo scorso anno su questi temi, sono tutti aspetti contraddittori, che però convivono. Da una parte c’è questo desiderio di performance a cui si è spesso spinti dai social media e dall’altra questi ultimi ti presentano dei modelli direi più “umani”, che coesistono.
Mi ha colpito molto l’impronta educativa di ogni tuo progetto…
Il vero problema del web è che non esiste una front page, ossia abbiamo bisogno di curatori, perché c’è troppo di tutto. Pensa per esempio al discorso delle fake news, che vale allo stesso modo del discorso delle immagini e del fatto che schifezze possano passare per buone. Certamente il criterio di valutazione è spesso soggettivo, ma è anche vero che esistono degli esperti del settore, come me e come altri, che a questo punto hanno anche un dovere di comunicare ciò che secondo loro è corretto e ciò che non lo è. In sunto credo che gli aspetti positivi del web siano largamente maggiori di quelli negativi.
Qualche anticipazione del nuovo Photo Vogue Festival?
Ci sarà una mostra di Paolo Roversi a Palazzo Reale, in cui saranno esibite solo Polaroid originali, lavori inediti insieme ad altri più iconici, glamorous, divisi per storie, per mostrare anche il processo di lavoro di un fotografo.
Vi sarà lo scouting di Photo Vogue con una giuria incredibile e una mostra di cui sono molto orgogliosa, che parlerà di moda in senso alto, Fashion and Politics in Vogue Italia, in cui si ripercorrono tutti gli editoriali che hanno parlato dei temi sociali, dalla follia per la chirurgia estetica all’oil spill alle guerre, per mostrare come una rivista di moda possa veicolare messaggi diversi e più importanti della sola vendita di un abito.
Elena Arzani
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